STEFANO TONDO di Špela Zidar

Testo di Špela Zidar publicato sulla rivista on-line Artext  

http://www.artext.it/Artext/Stefano-Tondo.html


Špela Zidar – Il tuo lavoro viene costruito secondo un lento processo di introspezione per portare avanti le tematiche sull’ambiguità della nostra percezione e il bisogno di rapportarsi con la spiritualità resa percettibile attraverso la riflessione e i riflessi nelle superfici specchianti con le quali solitamente costruisci le tue opere.
Quindi osservarsi ed essere osservati da noi stessi.
Questi sono proprio alcuni dei concetti cardine venuti fuori durante l’isolamento forzato del recente lockdown. Come queste condizioni hanno influenzato o rafforzato il tuo lavoro, la tua ricerca artistica?

Stefano Tondo – Si, la mia ricerca prende origine da un processo di introspezione ma più che di spiritualità preferisco parlare di misticismo antropologico, un ossimoro che spiega efficacemente la grande stima che ho dell’Uomo e delle sue enormi potenzialità, nonostante tutto. Intendo qualcosa di assimilabile all’illuminazione di un Buddha o all’idea cristiana dell’incarnazione divina dove natura umana e divina coincidono. Troppo spesso ci si dimentica che la parte divina non è da ricercare fuori, ma dentro di noi. Nella ricerca di un proprio Sé ontologico trovo che l’attraversamento della soglia è senza dubbio una delle immagini più eloquenti.
Spesso la soglia e lo specchio si presentano come figure intercambiabili, a volte congiunti in un tutt’uno. Davanti a questa soglia l’invito è quello di guardarsi dentro per poterla attraversare.

Venendo alla tua domanda, credo che i giorni di cattività che abbiamo vissuto e che stiamo vivendo (io stesso mente scrivo sono in quarantena) siano stati anche una condizione in cui tutti questi pensieri e sensazioni sono diventate esperienza forzata per tutti. Ho l’impressione che abbiano reso più sensibili un maggior numero di persone nel cogliere certe tematiche. Il fatto stesso che siamo qui a parlarne ne è la prova.

ŠZ – Durante questo periodo, purtroppo non del tutto alle nostre spalle, quali erano le difficoltà o paure maggiori riguardo il proseguimento della tua ricerca artistica? Questo tempo fermo è servito anche per nuovi spunti e sviluppi nella ricerca facendoti scoprire possibilità inaspettate, anche in termini di relazioni?

ST – Durante il lockdown non ho letto un romanzo, non ho visto un film o una serie tv, non ho neanche sistemato casa o svuotato la cantina, nulla. Per me è stato un periodo in cui tutto si è fermato ma il tempo ha cominciato a correre.
Da docente, inventarsi e gestire la didattica a distanza è stata un’attività senza sosta tra mail, chat, video-riunioni e video-lezioni, realizzazione di video-tutorial, centinaia di disegni visionati in foto (spesso sfocate) di cui scrivere un giudizio, di sabato e di domenica, primo maggio compreso. Tutto questo cercando di rendere accettabili le giornate ad una bambina di quattro anni chiusa in casa e dividendosi il tempo per il lavoro con la mamma anche lei in smart working. In questo contesto la relazione caratterizzante è stata quella con lo schermo dei vari dispositivi usati che ha assunto una dimensione totalizzante.
Subito dopo la riapertura un amico giornalista mi ha chiesto con curiosità quanto questa esperienza avesse influenzato il mio lavoro. Nell’immediatezza dell’evento ero convinto che nulla fosse cambiato ma, tornando a frequentare lo studio mi sono accorto che mi accingevo a realizzare progetti che, pensati prima della chiusura, avevano ampliato il ventaglio dei loro significati.

La clausura è stata anche l’occasione per riavvicinarmi ad alcuni vecchi lavori, di cui ho iniziato a pubblicare con una certa regolarità le foto su Instagram. Naturalmente è una pratica ampiamente diffusa ma che in quei giorni ho sentito particolarmente utile per ricercare una connessione con le persone con cui potevo avere un confronto e con le quali si sono avviati anche dei progetti, tra cui una mostra inaugurata lo scorso ottobre.
In più, con la familiarità sviluppata con gli incontri in remoto si è consolidata l’abitudine di partecipare ad eventi culturali e incontri di lavoro a cui magari non sarei potuto essere fisicamente presente nella difficile situazione che stiamo ancora vivendo.

ŠZ – Il lockdown ha presentato anche altre difficoltà oggettive, non solo per quanto riguarda le possibilità di esporre e relazionarsi con gli altri, ma anche nella produzione dei nuovi lavori e nella finalizzazione dei lavori già avviati, pensati per spazi ormai chiusi e mostre disdette.Come è stato pensare ad una produzione o riflessione lasciata a metà?
Come sei riuscito a mantenere in vita i progetti già avviati?

ST – Più che di difficoltà parlerei di impossibilità di produrre dato che vivo a Firenze e ho lo studio a Prato ma non ho vissuto questo distacco con particolare ansia. La distanza che da più di dieci anni mi separa dal mio spazio di lavoro mi ha abituato alla pazienza. Il mio approccio al lavoro prevede quindi periodi di riflessione e gestazione e una volta chiarito il progetto anche nei suoi aspetti tecnici (ed è un processo quasi esclusivamente mentale) avvio il lavoro pratico in studio.
Procedo nella realizzazione un po’ come se ne ricercassi l’archetipo e in genere non mi discosto molto dall’idea iniziale, costi quel che costi. La dimensione di lockdown direi che per me si è rivelata una condizione di “arresto” in cui però i progetti che avevo già in mente si sono via via arricchiti in maniera inconsapevole di nuovi significati.
Da anni lavoro sul concetto di arresto, di immobilità, non una fissità assoluta ma esitante, un’immobilità carica di tensione e di un’energia generativa. Bene lo spiega il filosofo Giorgio Agamben illustrando nel suo libretto Ninfe il pensiero di Domenico da Piacenza, coreografo e maestro di danza che alla metà del xv secolo scrive il trattato De la arte di ballare et danzare.
Domenico spiega la danza come un ballare per fantasmata che intende come un arresto improvviso fra due movimenti, capace di contrarre virtualmente nella propria tensione interna la misura e la memoria di tutta la coreografia. Il vero luogo del danzare dunque non è nel corpo e nel suo movimento, bensì nella pausa non immobile ma carica, insieme di memoria e di energia dinamica.

Da quando sono cominciati questi brutti giorni ho convissuto con la straordinarietà degli eventi con curiosità e interesse.
Mi sono trovato a ripensare al Dialogo con il devoto e con l’ubriaco di Kafka che lessi anni fa. A volte nel guardare il mondo che mi circonda, e parlo anche della quotidianità, mi sembra di guardare con gli occhi del protagonista di quel racconto. Egli si turba di fronte ad eventi a cui nessuno dà peso o sembra vedere.
Ad esempio prova sgomento a dover attraversare una piazza troppo grande e battuta dal vento. Nell’indifferenza generale, vede tra le altre cose, le persone spinte dal vento che si sollevano da terra, per poi fermarsi a fare conversazione quando il vento si placa e, quando il vento ricomincia, sollevarsi di nuovo da terra. Di fronte a questi fenomeni si domanda come mai nessuno vede nulla, solo lui ha paura. Nei giorni passati ho avuto come l’impressione che tutti si siano dovuti fermare a guardare con quelli stessi occhi la vita che avevano vissuto fino a qualche giorno prima e i luoghi che eravamo soliti attraversare.
Nessuno è potuto rimanere indifferente. Credo che questa condizione sia stata ancora più forte per gli abitanti di una città come Firenze, legata particolarmente al turismo, che ancora oggi vive quindi una situazione drammatica e che per questo ha finalmente mostrato il vuoto che la affligge.

ŠZ – Uno dei tuoi progetti pensati per un altro spazio è stato riadattato e presentato all’interno del progetto ‘DIVERSOINVERSO’ presso il Centro per l’arte contemporanea Trebisonda a Perugia in forma di una doppia personale dal titolo ‘Doppio Gioco.’ Come descriveresti questa esperienza e come hai gestito l’adattamento del progetto?

ST – Mi è dispiaciuto che il progetto di mostra programmata per settembre presso la SACI – Arts College International di Firenze sia stato poi annullato. Proprio a causa del lockdown le opere erano ancora in uno stato embrionale e ho avuto modo di rimodulare il progetto espositivo per una delle sale del Centro per l’arte contemporanea Trebisonda di Perugia con il quale in piena pandemia abbiamo pianificato questa mostra.
Se possibile lavoro partendo dallo spazio e i lavori sono pensati nelle forme e nelle dimensioni per quell’ambiente.

Il progetto era stato pensato per la sala espositiva della SACI, un ambiente all’interno di un palazzo storico, lungo e stretto con un andamento longitudinale coperto da volte a crociera decorate. La mia idea era quella di collocare in fondo alla sala un oggetto-installazione sopra una base nera. Questo oggetto avrebbe avuto dimensioni contenute, un diametro di circa 80 centimetri, ma i suoi riflessi luminosi e il suono generato avrebbero invaso lo spazio.
Percorrendo la sala lo spettatore sarebbe stato accompagnato da una teoria di grandi pannelli opachi che accolgono delle forme di un nero lucido.

La sala che all’interno dello spazio espositivo perugino ho scelto per i miei lavori è uno spazio ampio a pianta rettangolare, a cui si accede da uno stretto corridoio. In questo caso ‘Lo scudo di Perseo’, che sarebbe stata una installazione di dimensioni contenute, si è trasformata in qualcosa di più grande, diventando l’unico elemento visibile allo spettatore che varca la soglia della sala entrando dal piccolo corridoio. Un unico oggetto pervade tutto lo spazio e catalizza l’attenzione.
L’esperienza è totalizzante e l’effetto lo definirei barocco, non perché ridondante, ma per l’intento di coinvolgere lo spettatore attraverso lo spazio, la luce, il suono, l’ombra del proprio corpo. Solo alla fine, voltando le spalle e incamminandosi verso l’uscita ci si può imbattere in uno solo dei pannelli neri che intanto hanno preso il nome di ‘Screenshot’.

ŠZ – Nella mostra, oltre all’opera ‘Lo scudo di Perseo’ nella quale un grande rettangolo luminoso e sonoro, per un semplice fenomeno di riflessione, diffonde e capovolge l’ombra dello spettatore sul muro, hai esposto anche lavori dalla serie ‘Screenshot’ composta da pannelli neri verticali che nelle proporzioni possono ricordare lo schermo di uno smartphone e che riflettono l’immagine dello spettatore come se si volesse attivare il riconoscimento facciale. In entrambi i casi lavori con la riflessione, con l’ambiguità della visione, tematiche che sono sempre state centrali nel tuo lavoro. Solitamente per alterare la percezione dello spettatore utilizzi i riflessi sulle superfici lucide dell’ottone sotto le quali nascondi eventuali elementi multimediali che producono le vibrazioni e il suono.
In questa mostra approcci la multimedialità in modo opposto, riproduci l’effetto dello schermo dello smartphone, quindi scopri la parte multimediale, senza però veramente utilizzare le tecnologie. Potrebbe essere stata proprio l’esigenza della comunicazione tramite lo schermo durante il lockdown ad ispirare questa serie?

ST – È vero, quando utilizzo l’artificio tecnologico è sempre nascosto, se ne percepisce solo la magia dell’effetto, che sia una luce, la vibrazione che genera un suono o l’apparire di un’immagine dal fondo di uno specchio. In ‘Screenshot’ al contrario la tecnologia è solo evocata nel titolo. Ma questo è bastato per amplificare il significato.

Entrambi i progetti sono stati pensati in tempi non sospetti ma indubbiamente, una volta uscito dal turbine della iperconnessione virtuale in cui sono stato immerso per mesi, il significato di quei sottili pannelli variamente riflettenti si è ampliato e mi è sembrato più esplicito. Chiamando questa serie ‘Screenshot’ ho ricondotto la fruizione ad un immaginario collettivo ampiamente condiviso e quindi più facilmente comprensibile. Quotidianamente facciamo esperienza di come il rapporto con lo schermo dei nostri dispositivi digitali ci consente di aprire infinite porte sul mondo, da cui guardare o essere guardati. Un attimo prima che la lettura biometrica del volto ci consenta di affacciarci su questa soglia e attivare il “miracolo” della panvisibilità, uno specchio nero ci restituisce la nostra immagine.
Io dico che ormai catturare quell’immagine è la vera impresa. In sostanza, in queste poche righe vorrei dire che mai ho pensato di raccontare in maniera esplicita qualcosa di contingente, di legato alla cronaca per quanto straordinaria possa essere. Al contrario, partendo da un dato di esperienza che potrei definire anche intimo e autobiografico ho sempre cercato di generalizzare attingendo a concetti universali. Nell’istallazione ‘Lo scudo di Perseo’, ad esempio, tra i vari gradi di lettura è presente l’invito a riflettere sui propri comportamenti e sulle proprie responsabilità, un atteggiamento che oggi più che mai sarebbe molto utile. Nell’installazione si evoca indirettamente la Medusa che si riflette nello scudo dell’eroe ma è con la presenza del visitatore che l’opera si completa.
Raggiunta la soglia, costituita da una grande lastra d’ottone orizzontale, vibrante e sonora, egli si ritrova inaspettatamente faccia a faccia con la propria immagine incorporea che gli si profila davanti, capovolta. Il confronto con l’altro si risolve in un inaspettato intimo confronto con se stessi, che dovrebbe porre nella condizione di domandarsi: io sono l’eroe o il mostro?

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