Retrospettiva diciannove (1997-2016) di Caterina Toschi

Testo di Caterina Toschi pubblicato sul catalogo della mostra personale dal titolo Il grande uccello, tenutasi nel 2017 presso la Galleria Da Mihi di Berna

 

Stefano Tondo | Retrospettiva diciannove (1997-2016)

di Caterina Toschi

 

  1. Sei | 1997-2003 

Nel 1997, Stefano Tondo realizza Scrigno, un gomitolo di lana di acciaio appoggiato sul pavimento, in cui inserisce un tubo di ottone che affiora dalla superficie creando un cerchio piccolo e sottile. L’anno dopo, i serrati intrecci della sfera si aprono e il punto di luce si riempie di vuoto, scavando nel gomitolo, che si solleva precariamente da terra trasformandosi in una spirale. In Vortice, icona che ritorna nella sua produzione fino al 2006, l’esigenza di moto sembra incoraggiare la forma a schiudersi, facendo già intuire nella ricerca dell’artista una riflessione sulla fragilità del confine fra interno ed esterno. Tondo realizza, infatti, nel triennio successivo Vuoto e Carnale: il primo dall’epidermide nodosa, per l’uso della canapa; il secondo dal forte spessore materico, per la pesantezza del ferro acuita dal bituminoso antirombo. Entrambi rappresentano un corpo scavato internamente da un tunnel, in una ricerca labirintica e ostacolata di un punto di luce. 

Questi moti implosivi nella forma sembrano anticipare l’anno del chiarimento, il 2003, quando un desiderio, probabilmente implicito nelle ricerche sinora indagate da Tondo, diventa una scelta: dopo aver esercitato per un decennio il mestiere del fotografo in campo pubblicitario, diffidente delle molte identità fittizie costruite grazie all’immagine e alle sue seduzioni, decide, infatti, di dichiararsi artista, e si convince di poter difendere per la prima volta questa identità in un’esposizione collettiva: Networking-Contested Space, a cura di Marco Scotini presso la Stazione Leopolda di Firenze.

 

  1. Dieci | 2003-2013

Per dieci anni la sua ricerca è centrata sulla luce e l’equilibrio. L’artista si avvicina alla cultura orientale e inizia a praticare le arti marziali: il kungfu e il tai chi cinesi, il judo giapponese. La scoperta di un punto di equilibrio, da parte di un individuo trasportato come ognuno dal proprio essere uomo, lo educa alla disciplina, e non al cambiamento; alla capacità di gestire i propri lati bui, vergognosi, esasperanti, ora interrogati e accettati. Così, quel punto luminoso, timidamente cercato nei corpi precedenti, si espande e conquista lo spazio accogliendone il suono. Orior è una lastra di ottone dotata di un dispositivo, che le conferisce una leggera vibrazione, utilizzata da Tondo in una serie di opere; la sua etimologia è dal verbo oriri, che significa sorgere, nascere. Nella prima installazione del 2005, realizzata per la mostra Sopra-Luoghi a cura di Laura Vecere, la lastra è stesa su un manto di foglie secche, nel giardino di Villa La Scagliola a Verbania-Pallanza. É l’immagine dell’immaterialità della luce: una massa sottile, dorata, lucida e informe, quasi bucata dal riverbero e circondata dalla materia; con l’acido Tondo ne corrode i margini, così rappresentando la nascita a oriente del sole e il suo percorso di espansione nel naturale, raccontandone i tocchi attimali e perpetui sui corpi, e il momento di vibrato confine tra la massa e l’etereo. 

Sempre nel 2005, in occasione di una personale a cura della Vecere presso la Galleria La Corte Arte Contemporanea di Firenze, egli restituisce all’opera la sua geometria, e Lastra ritorna rettangolare. Esposta alla parete come una tela e illuminata da una luce artificiale, la sua vibrazione rumoristica, prodotta dallo speaker, sussurra all’osservatore di trovarsi non dinanzi alla sola luce ma al suo incontro con la corporeità ambientale. Cinque anni dopo, l’immagine si moltiplica e Tondo realizza, in occasione della mostra Star Point, a cura di Gianni Pozzi, Susanna Generali e Laura Vecere presso il Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci di Prato, dodici corpi dorati appesi alla parete in un’installazione che ha già implicito il senso della riproduzione e della nascita; nel 2012, il bosone, teorizzato nel 1964 da Peter Higgs e rilevato a Ginevra, offre alle sue ricerche un dato di natura, la cosiddetta ‘particella di Dio’, in grado di conferire una massa agli elementari. É il principio perfetto, sacro, primigenio del corpo, l’origine luminosa della vita, che l’artista sintetizza in Orior H° e Orior XII

In questi anni tuttavia ritorna anche l’uomo. Nel 2005, all’ingresso della Limonaia di Villa Strozzi, Tondo presenta In-cognito, durante le manifestazioni del Quartiere Quattro a cura di Lara-Vinca Masini. Lo specchio, il doppio, l’altro; l’opera è ciascuno di questi elementi e al tempo stesso la loro triade unita e spaesante, che «ci mette di fronte», spiega la critica, «alla condizione nella quale viviamo, alla continua perdita di identità nel processo di omologazione che rende tutti uguali, al di là delle ideologie, delle esperienze singole, delle diversità che costituiscono le ragioni della vita di ognuno, e che fanno parte della speranza che è la condizione più autentica della vita stessa». Curatrice l’anno dopo della mostra di Tondo con Irena Kalodjera nella Sala degli Uomini Illustri di Villa Pandolfini-Carducci di Legnaia, la Masini presenta Senza Titolo, un’installazione il cui precedente è Alcatraz, la sua prima opera esposta al pubblico presso la Stazione Leopolda: la porporina, stesa a terra a comporre un cerchio perfetto, si solleva nell’aria come polvere dorata illuminata da un fascio luminoso; ai lati, quattro piantane richiamano figure antropomorfe, inginocchiate in preghiera su dei tappeti rossi, la cui nenia distorta accompagna acusticamente il confronto con la retriva Firenze per «un nuovo umanesimo» in arte – spiega la Masini, richiamando un progetto espositivo a lei caro. Un dialogo, tra la vitalità del presente, libera e  in oscillazione, e le «affocate sinopie» di Andrea del Castagno, «fantasmi di un passato carico di significato, di un modello di classicità occidentale, quello della Firenze del Rinascimento, nella sua dura, lucida razionalità politica, nel suo senso di potere tetragono, chiuso nel cerchio di una città muraria». 

Nel 2007, Lara-Vinca Masini presenta Patiens presso gli spazi di Patrizia Pepe a Firenze. L’ottone ritorna come materiale dell’opera, ma allegerito in un filo, in un corpo vuoto. Non più la pienezza della massa, ma il suo contorno: un cerchio di lamina di ottone, compresso da un nastro di seta nel configurare il profilo di un uomo. É l’immagine di un’umanità costretta e imbrigliata nei suoi tentativi di espansione, nel suo istinto a dilatarsi e a liberarsi nella luce; il ritratto di un individuo oppresso dall’indumento in un contesto fortemente connotato, che impone al proprio osservatore una riflessione sui limiti delle proprie false identità.

L’anno successivo, Laura Vecere presenta la doppia personale di Tondo e Fabio Cresci intitolata Una ciliegia sul tram alla Galleria Il Ponte di Firenze. L’artista propone un quesito: Ma la terra di chi é? (in ascolto). L’installazione consiste nella video-proiezione di una donna a occhi chiusi, dalla mimica distesa e attenta ad ascoltare, insieme allo spettatore, un ronzio fastidioso, un brusio indecifrabile che invade lo spazio della galleria grazie a dieci altoparlanti appesi al muro. É un’opera che richiede all’osservatore una scelta: tra il comprendere, accostando l’orecchio agli speakers così da poter cogliere le singole storie registrate di un gruppo di giovani fuggiti dai drammi della guerra, e il negarsi invece all’ascolto, restando vittima della propria ignavia. L’attenzione è, infatti, lo strumento per ricongiungersi all’altro e superare la mineralizzata e paralizzante inerzia del sé. Lo stesso anno, nell’installazione presentata alla XV Quadriennale d’arte di Roma presso il Palazzo delle Esposizioni, l’ascolto diventa icona: l’artista propone lo stesso video della donna a occhi chiusi, ma lo priva del rumore. In questa occasione è invitato a esporre da Bruno Corà, curatore, due anni prima, della XII Biennale Internazionale di Scultura di Carrara, a cui anche Tondo partecipa.

Nel 2013, l’artista espone Autoritratto allo specchio nella collettiva Senza, a cura di Giuliano Serafini presso la C2Contemporanea2 di Firenze, e nella personale Manifesto, presso la Galleria Da Mihi di Berna. Autoritrarsi, il punto di partenza di ciascun artista; il racconto più bello è, infatti, sempre il primo, quello autobiografico, su cui Tondo continua a lavorare scoprendone nuove angolazioni e paure. Tre anni prima, nel 2010, egli realizza un video, Up: un uomo, nel sottopassaggio della stazione ferroviaria di Santa Maria Novella, è ripreso per tre minuti e mezzo mentre si cerca in un angusto corridoio, entrando e uscendo dalle diverse uscite dei binari. Egli è soffocato da un’ansia crescente, e si confonde in una corsa verso il niente, o il tutto se solo riuscisse a placare l’apprensione e comprendesse che tornare al punto di partenza è un traguardo poiché implica l’accettazione del proprio centro. Non si tratta, però, di un capitolo conclusivo, ma di una costante ricerca per Tondo, che vi ritorna, infatti, tre anni dopo in Autoritratto allo specchio: un monitor video presenta il ritratto dell’artista dietro a uno specchio-spia; grazie alla luce del fuori cornice, lo spettatore, può riflettervi la propria immagine, e quindi sdoppiarsi, accoppiarsi con l’effigie di Tondo. Una tautologia dell’io, o dell’altro, per confondersi e liberarsi, solo per qualche istante, dai propri confini.

 

III. Uno | 2014

Un anno di ricerca, il 2014. Fisiognomica è l’opera più intima realizzata da Tondo, pubblicata come copertina del decimo numero della rivista “Senzacornice”. L’artista presenta il video del proprio volto in primo piano, appoggiato su un cuscino e manipolato da due mani femminili che penetrano la ripresa quasi fallicamente dal fuori del campo visivo. La pulizia dell’immagine, tra la carne e il candore marmoreo del cuscino, concentra in tre minuti e quarantasette secondi un incontro tra due amanti. Carne e non carnalità; se c’è erotismo è implicito solo nel dopo il confronto, o nel mentre come forzata distrazione. L’ottusità passiva del silenzio – vittima di un’invadenza e di una scoraggiata, quasi ridicola richiesta di cambiamento – diventa una carnefice aggressiva nella sua violenta caparbietà. É un’immagine bella, poiché onesta per l’osservatore, rassicurato nella sua ricerca di intime rappresentazioni di difficoltà umane condivise, qui riconosciute nello scontro inevitabile fra due umanità. 

Occhio non vede cuore non duole, Controcanto e Incostantequilibrio. Lo stesso anno, Tondo sublima il proprio ritratto nella maschera di un Buddha, ispirata a un piccolo portaoggetti casualmente ritrovato in casa. È Zarathuštra a interessarlo, l’immagine dell’uomo illuminato e dell’icona incarnata, ispirandosi alle Antropometrie di Yves Klein, che presentano tracce di corpi belli, intinti nel colore, che diventano impronte di un atto di sublimazione attraverso il materico. La serie, realizzata nel 2014 e accomunata dall’uso della stessa matrice, e dunque dalla costante della maschera, ha forti affinità con Fisiognomica: le sue declinazioni presentano, infatti, un ritratto ideale, immobile nello sforzo di mantenere il proprio centro, violentato dalla realtà esterna, che ne turba l’immanenza penetrandolo oralmente. È un mutismo imposto, soffocato dall’occlusione della bocca del Buddha con grandi imbuti di ottone, in Occhio non vede cuore non duole, e con ciclopici megafoni (acquistati da Tondo al mercato di Arezzo), in Controcanto. Il fastidio della carne, opprimente ma necessario per raggiungere lo statuto di icona contemporanea, è urlato in Incostantequilibrio, poi esposto nel 2015 presso lo spazio Moo di Prato: fissata al pavimento, grazie a un punto interno piombato, ma anche oscillante e precaria rispetto al proprio centro, l’opera formalizza l’esperienza del vuoto, la cui imponderabilità la rende un passaggio obbligato verso l’equilibrio.

 

  1. Due | 2015-2016

E infine il reale; brutto, colorato, a volte kitsch. Il 2015 inaugura una nuova fase della ricerca di Tondo, forse coincidente con una stagione più matura dell’uomo, che ha la coraggiosa impudenza di prelevare l’oggetto dal quotidiano inglobandolo in un’opera bella; poiché la sua è sempre un’arte elegante. Ricompare la fotografia, uno strumento di indagine mai abbandonato nel suo lavoro, ma che, dopo dodici anni, torna a essere riconosciuta come linguaggio artistico. Tra il dire e il fare è una stampa digitale, un omaggio a Leonardo da Vinci e al suo ultimo anno fiorentino: si tratta di una stele su cui è incisa una frase del maestro dedicata a Tommaso Masini, noto anche come Zoroastro da Peretola, e al suo volo dalle colline di Fiesole. «Empiendo l’universo di stupore», quest’uomo, amico e collaboratore di Leonardo nei preparativi per La battaglia di Anghiari, accetta di lanciarsi dal Monte Ceceri con il Grande Nibbio, la macchina volante da questi ideata e costruita, planando, secondo le cronache, fino a Camerata, dove atterra rovinosamente al suolo fratturandosi entrambi gli arti. Una storia di cieca fiducia e di ingenua immaginazione, durante un anno di coraggiosi tentativi e brucianti delusioni per Leonardo, che Tondo ricorda, scegliendo di includere nell’inquadratura, accanto alla stele, il moderno cartello di ‘pericolo di caduta’. L’ironia è la nuova componente di questa stagione, tra le più difficili da gestire artisticamente per il rischio di un faceto in grado di sporcare il serio. Si verifica, quindi, una maturazione nella produzione di Tondo, che, nel monumento Il grande uccello, dedicato l’anno dopo all’icona fotografata sul Monte Ceceri, decide di inserire un giocattolo: un uomo mascherato prodotto dalla celebre casa editrice e studio cinematografico Marvel. Si tratta di un oggetto di plastica rossa, tra i più dozzinali, goffo – come lo descrive l’artista – nel suo sbattere affanosamente le ali sopra il moderno obelisco di ottone; è l’immagine di una virilità ostentata, di una sessualità esibita ma segretamente svigorita e impotente, che rimanda alla crisi di Leonardo ma anche alla forza chimerica del suo tentare perpetuo, frustrante ma divino, come il Mercurio volante del Giambologna, a cui il monumento si ispira, che viene richiamato dallo Zefiro della base, di finto bronzo poiché recluso alla sola epidermide per un interno in fibra di carbonio.

Dal 2012 l’artista espone il proprio lavoro presso la Galleria Da Mihi di Berna; quattro anni dopo, vi presenta la nuova serie di Occhio non vede cuore non duole: è un’estate inquieta, quella del 2016, durante la quale il colpo di stato turco e i greggi di uomini macellati sulle coste mediterranee turbano l’immaginario di Tondo, forse più esposto alla brutalità della cronaca per aver acquisito una nuova identità di padre. Ritorna la maschera ideale di Zarathuštra, maggiormente incarnata per il particolare degli occhi accentuati rispetto alle precedenti opere, sgranati nel precario equilibrio tra panico e disciplinata stabilità. L’oggetto affoga il ritratto in un atto di violenza, che richiama pratiche coercitive quali lo straccio in bocca e il laccio in lattice fetisch, ed è prelevato da un quotidiano le cui grammatiche sono indagate in profondità dall’artista con il preciso obiettivo di formalizzare un proprio lucido giudizio rispetto a esso: una palla di natale, da una festività ormai degradata a rito del consumo; un bossolo di cannone del 1943, da un conflitto bellico tra i più crudi della storia occidentale; un rotolo di giornali, con in primo piano la fotografia di un atleta americano, indagato per doping, ripreso in un volo ormai contraffatto; e, infine, la felpa di un profugo, intrisa di cristalli di sale, trovata da Tondo su una scogliera pugliese, forse la più alta tangenza, nella produzione dell’artista, tra durezza e poesia.

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