Per exit, per vuoto Di Renato Ranaldi

Testo di Renato Ranaldi che accompagnava la mostra di Irena Kalodjera e Stefano Tondo dal titolo exit, tenutasi presso la Galleria Raggio Verde di Lecce nel 2003.

 

Per exit, per vuoto
Di Renato Ranaldi

 

Irena e Stefano un giorno furono ammaliati da una lastra di ottone lucidata a specchio. Pensando di trasformarla in arte, la comprarono e la portarono a casa contenti.
Si contemplarono a lungo in quella superficie d’oro; Irena faceva le boccacce, Stefano anelli di fumo con una sigaretta; bastava scuoterla un po’ che sentivi boati repressi come tuoni di un temporale lontano; lo specchio s’increspava trasformando le loro perplessità in certezze indefinibili.
Lì dentro era riflessa una cosa folgorante disegnata da una teoria di fosfeni che, mutando profilo continuamente, voleva sovvertire l’ordine della visione. Il bagliore di un fantasma andava e veniva poi spariva per un po’, lasciando in quell’oro due facce attonite.
All’improvviso lo specchio si allontanò a una velocità prodigiosa senza rimpicciolire, sprofondando in spire concentriche, risucchiato dallo spazio famelico, diventò un pozzo senza fine; i due si affacciarono fissando quell’oltre, dove l’eco rimandava i suoni distorti dello stupore.
Si spaventarono. Stefano fumava una sigaretta dietro l’altra e Irena divorò una scatola di cioccolatini (ha sempre apprezzato molto questo cibo degli dei); quella notte sognò l’eros indicibile di una corsa a perdifiato, sforando uno spazio incorniciato dalla luminescenza della parola Exit. L’altro sognò la sostanza di un vuoto che avrebbe riempito pronunciando la parola vuoto.
Col tempo credettero possibile riportare tra le cose della vita quello che era sepolto da sempre tra le cose morte che la materia di quella lastra d’ottone aveva custodito milioni di anni fa; un garbuglio di tracce significanti, particelle alfabetiche sconosciute da ricomporre in sintassi rinnovate, sistemi di segni a incastro illuminati dalla luce di un destino ineluttabile di dimenticanza per un tema mai affrontato. Ma la cosa li turbava e non riuscivano a raccontarsela, una cosa senza nome come un’invenzione pensabile finché se ne sta rimpiattata, ma impensabile non appena decide di farsi vedere; visione fascinosa e insostenibile insieme.
A tutti e due venne in mente che la tecnica li avrebbe fregati: non dovevano risolversi nel sogno ubriaco di sé di quel magistero: era necessario un blocco di ossessività, il peso della zavorra, come un pensiero caparbio e insistito che àncora l’artista all’idea. Una questione di coraggio insomma.
In una complicità muta hanno ripudiato l’eleganza (non era il caso imitare la bellezza di quello specchio) e, come tutto quello che manca di stile, in una corsa bastarda e senza regole col tempo, hanno detto di no alla vittoria di una confezione.
Ci voleva un morbo propheticus che li contagiasse, bisognava ammalarsi di quella peste e stringere fra le braccia il desiderio della lingua sconosciuta. Quel contagio avrebbe generato una forma scontenta di sé ma modello per altre forme, onniscienza del segno generante, pensiero nudo che fiacca per la complessità che investe; qualcosa che comprendesse in un ventaglio di riverberi di senso la traccia del nesso tradito, forma totale che aspira all’indicibile: il profilo di una faccia ridotta a un pugno dai cacciatori di teste, piantata in cima a un pinnacolo di un’architettura del Borromini, per esempio.
Ora Irena e Stefano si trascinano da un sogno a un altro (tutti interrotti bruscamente per ricordare meglio l’ultima immagine) realizzando che anche un’illusione ha un obbiettivo ch’è un’altra illusione: loro conoscono quanto è breve e intenso il piacere della verità che è la conquista di chi cerca.

Renato Ranaldi

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