Testo di Caterina Toschi pubblicato nel 2014 sulla rivista on-line Senzacornice
Fisiognomica
Di Caterina Toschi
«Sembra voler scavare, in un rapporto diretto, fisico nella profondità della materia come nell’intimità più segreta delle nostre angosce». Così Lara Vinca Masini commenta l’opera di Stefano Tondo in occasione della prima mostra da lei curata dell’artista, intitolata in-cognito, ospitata nel 2005 presso la Limonaia di Villa Strozzi a Firenze. È, infatti, un’impressione quella che emerge dinanzi a Scrigno (1997), Carnale (2001), Vortice (2006) – solo per citare alcuni dei suoi lavori –, la considerazione che egli appunto sembri «voler scavare» nel gesso, nella canapa, nel ferro, per indagarne le profondità e giungere a un’intimità con essi. Lo scavo, il foro, il taglio, sono tutte operazioni votate alla ricerca di un contatto; l’artista penetra i propri materiali al fine di conoscerli, e, una volta conquistati, li espone in un’opera bella. Poiché tutta la sua produzione si connota per un’indiscussa bellezza.
Lo spettatore è chiamato a percepire, a comprendere, ma anche a essere presente dinanzi all’opera come corpo fisico, che occupi uno spazio, che emani delle ombre, che si rifletta sulle sue superfici. Che sia in grado di agire come forma all’interno della cornice. Stefano Tondo desidera, infatti, che l’osservatore aiuti l’opera a completarsi; che la interroghi nella consapevolezza di partecipare alla sua costruzione.
«[…] come nell’intimità più segreta delle nostre angosce», così chiude Lara Vinca Masini. Dopo aver invaso lo spazio dell’opera fisicamente, lo spettatore è infine invitato a uscirne e a ritornare nell’intimità della propria reazione. Per riflettere. In ciò l’artista rifiuta l’idea di un’opera muta. «L’arte è sempre e comunque comunicazione». Il coinvolgimento fisico del suo pubblico, disorientante, destabilizzante, diviene, infatti, il presupposto per stimolarne l’attenzione. Per pungere l’osservatore distratto. Scuoterlo. Toccarlo appunto, così da agevolargli la comprensione e renderlo attento nelle proprie considerazioni. È un’abilità la sua, quella di «metterci di fronte a noi stessi, con un’intensità e una forza tutte mediterranee» – prosegue la Masini. La sottile ironia, soggiacente la prima fase, quasi ludica, di esperienza dell’opera, si traduce nella seconda in realizzazione di ciò che in realtà l’artista pone in discussione. L’identità; quell’immagine certa e rassicurante che lo spettatore ha di se stesso; la visione di sé negli occhi dell’altro e la sicurezza di averne un controllo. Questo Stefano Tondo pone in discussione.
E dunque Fisiognomica (2014), in cui l’artista abbandona la metafora del materiale e si rivela in un apparente autoritratto. É il suo volto presente in primo piano, ripreso nella pulizia di uno sfondo bianco a richiamare iconograficamente la raggiera di un Ecce Homo. Ha scelto il tempo della ripresa, e dunque l’accadimento rispetto alla sicura fissità del dipinto. La bellezza dell’icona è, infatti, interrotta: due mani femminili declassano la ieratica staticità toccandola. È la carne ora a essere penetrata, non più l’ottone, il ferro o l’acciaio; il volto è manipolato, fastidiosamente impastato, plasmato, amalgamato. È aggressiva la vitrea passività dei suoi occhi, irremovibilmente ottusa. Nel flusso di tre minuti e quarantasei secondi, Stefano Tondo riesce a compiere una rara operazione: irrita il proprio spettatore. E qui la riuscita dell’opera. Non è più un autoritratto, ma un’opera in grado di retrahere, trarre fuori una verità da ogni suo osservatore suggerendogli un dubbio scomodo. Nell’intimità di una relazione quale la portata dell’altro su di sé o l’imposizione di sé sull’altro? Quanto il desiderio di gratificare o la violenza dell’esigere?