Destinato a fallire… sembra. Di Laura Vecere

Testo di Laura Vecere pubblicato sul catalogo della mostra personale dal titolo Il grande uccello, tenutasi nel 2017 presso la Galleria Da Mihi di Berna

 

Destinato a fallire… sembra. 

Di Laura Vecere

 

Sebbene Leonardo, a monte del primo tentativo di volo umano, avesse condotto osservazioni approfondite ed esatte da cui aveva desunto la resistenza dell’aria, valutati i rapporti tra il peso e la portata alare (notando che i volatili più sono grandi  più risparmiano sulla  spesa energetica  dovuta al movimento,  preferendo sfruttare l’apertura d’ali come vela e utilizzando le correnti ascensionali), il volo libero sembra destinato a fallire.

 

L’uomo ci prova e ci riprova utilizzando caparbiamente gli stessi mezzi, come un Sisifo condannato dagli dei. Leonardo invece dopo il primo e ultimo esperimento ha abbandonato ogni ulteriore ricerca in quella direzione. Il luogo dello storico evento è comunque identificato da una stele commemorativa su cui è scolpita una frase che se ne stava sepolta (sebbene pronta per l’occorrenza) nelle pieghe del “codice” sul volo insieme a disegni e osservazioni e, isolata da uno studio ampio e complesso, assume un’aria tronfia e vanagloriosa. Anche più sarcastica del necessario, come rileva la fotografia di Stefano Tondo che mostra la lapide commemorativa affiancata (secondo il gusto neo-brutalista diffuso negli uffici comunali preposti allo scopo), da un cartello triangolare su cui campeggia una sagoma nera in campo giallo di un uomo in caduta libera, disarticolata e annaspante. Il luogo è realmente pericoloso ma ci si domanda perché mai non esista una segnaletica meno invasiva e, in questo caso, meno derisoria.  

Il volo è stato poi un vero fallimento? Su questo punto i riferiti non sono concordi. Sappiamo che mentre l’atterraggio venne definito brusco, la fase di decollo e il post-decollo, invece, andarono  secondo le previsioni. Si può dire che il primo uomo volante si fece male, ma non tanto da  passare a miglior vita, se non più tardi, a Roma, probabilmente per una epidemia di colera. Un esperimento riuscito a metà, dunque. Comunque sia Leonardo non volle più tornarci sopra. La domanda rimase comunque aperta. Come è essere un uccello?

L’evoluzione tecnologica ha risposto più tardi con l’aliante, il deltaplano, il parapendio, la tuta alare, insieme alle tute protettive (micro telecamere incluse) per eseguire cadute libere da altissime quote (frenate da un paracadute finale) che utilizzano solo la resistenza e le correnti dell’aria. 

 

Da questo quadro di esperienze estreme, e soprattutto adrenaliniche, rimane fuori un altro tipo di volo, quello che da sempre si fa nei sogni, descritto dai poeti e narrato dagli sciamani, in cui si sperimenta la levitazione. Un viaggiare senza peso dove, a differenza dei simulatori degli  astronauti, il centro di gravità permane in arcano collegamento con l’assenza di attrito e di peso  corporeo permettendo di padroneggiare placidamente lo spazio. 

Ma non è forse compito dell’artista togliere gravità alla materia, rivolgersi alla parte volatile di essa come fa Zeus con i fulmini o Eolo quando libera i venti dalle caverne e scatena le bufere o Prospero con Ariele? Non è dunque Zefiro una personificazione del soffio degli dei, il cui magico respiro sospinge l’alato piede di Ermes? 

Ognuna di queste storie implica la compresenza di due entità, di due figuranti necessari e complementari, un mandante e un mandato uniti in un doppio. Descrive la relazione che intercorre in un sodalizio comune necessario, essere l’uno x l’altro, come nel caso di Leonardo da Vinci e  Tommaso Masini (in arte Zoroastro da Peretola) scienziato-e-assistente. La forma mandante mandato è una delle figurazioni del chiasmo, indica la permutazione di ruoli e di energie. 



Cosa accade ora tra le due estremità di un cilindro, che ha in basso Zefiro che soffia e in alto un supereroe alato di plastica rossa impegnato nel tentativo di spiccare un volo? Il soffio parte da terra, dove è poggiata la testa bronzea di uno Zefiro, ma la forma cilindrica, che incanala idealmente la libera espansione del fiato, è tale da rendere la posizione tra chi soffia e chi tenta di volare la parodia dell’antica relazione istituita tra mandante e mandato o piedistallo e scultura. Il piedistallo-Zefiro realizzato da Tondo nasce dalla commistione di due versioni distinte di Giambologna, mentre il supereroe viene dal mondo dei giocattoli forgiati in serie. In Giambolgna il putto soffiante era alla base dell’innalzarsi senza peso di Mercurio-Ermes, psicopompo e messaggero. Il messaggero più veloce di tutti i tempi. Più veloce della luce come è il pensiero. Un esemplare consimile è adesso alla base del tentativo di volo del giocattolo e l’allungata geometria cilindrica che collega le due differenti entità polari induce a pensare che essa sia da leggere anche come un distanziatore temporale oltre che spaziale.

Uno Zefiro senza Eolo o un Ariele senza Prospero, cioè abbiamo un’immagine di una forza che agisce non più diretta da una vera volontà, ma che si riversa in modo cieco e meccanico sull’oggetto. Tra i due estremi del cilindro non c’è un passaggio di testimonio e il supereroe di plastica rimarrà sempre un burattino senza riuscire a spiccare il volo. 

Ogni magia è sparita.

L’etere odierno è percorso dalle piste informatiche che avvolgono l’intero pianeta e i portatori di visioni identificabili con i messaggeri mitologico-metafisici: Angelo-Ermes-Ariele, sono costretti a viaggiare negli spazi residui, a destreggiarsi tra le fibre ottiche, a fare il surf sulle onde dei flussi informatici. Il loro cammino, tortuoso e mimetizzato, si confonde nella rete degli algoritmi e nella spettacolarizzazione informatica del quotidiano: disastri, attentati, stupri, chi l’ha visto? 

 

È alquanto improbabile che il piccolo uomo di plastica guardi qualcuno. Di sicuro i suoi vani  tentativi sono osservati dall’alto, da una serie di maschere identiche scure e lisce come ardesia levigata, sospese al muro. Le maschere hanno lo stesso sguardo attonito, la stessa fronte senza rughe, gli stessi occhi a mandorla e la stessa pettinatura divisa in due bande piatte e simmetriche che si aprono a tendina. Le loro bocche, trasformate dall’artista in una sorta di megafono conico (operazione già in atto da qualche tempo nei lavori di Tondo), ne alterano l’espressione un dì pacifica. Ovvero dalla impassibilità senza direzioni del sorriso illuminato del Budda (cui si ispirano)  sono trasformate in una sorta di  “coro da tragedia greca” che osserva lo sforzo inane del putto e “dell’omino di plastica rosso.” Le loro bocche-megafono, occluse, quasi soffocate, da oggetti differenti sembrano un breve compendio del mondo occidentale: una rossa palla di Natale, un bossolo di obice risalente all’ultima guerra mondiale, un rotolo di giornali, un fagotto appallottolato coperto da cristalli di sale che ne sbiadiscono il colore, ricordo di un indumento di un migrante raccolto sulle spiagge del sud Italia. Nell’insieme ogni oggetto rimanda alla quotidianità mediatica solidificatasi in simboli inquietanti, intransitivi e inanimati, quali relitti abbandonati provenienti dall’universo digitale informatico, e dove la figura del supereroe appare emblematica nel suo desiderio di perseverare in un tentativo le cui probabilità di riuscita rimangono avvolte nell’incertezza.

 

 

Laura Vecere, martedì 1 novembre 2016.

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